La violenza delle parole: una riflessione copy sulla narrazione di genere e le conseguenze delle scelte linguistiche

Parole
Giulia Righetti
Immagini
Francesca Uguzzoni
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4

Spazio al linguaggio inclusivo

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Il tema delle scelte lessicali non è però una novità nella vita di ogni copywriter: tutti i giorni, task dopo task, prendiamo questo genere di decisioni con consapevolezza, perché ognuna di esse ha immediate conseguenze specifiche.
In questo contesto, il politically correct c’entra poco: il punto è piuttosto un effettivo riconoscimento dei diversi interlocutori di ogni copy prodotto e dell’impatto delle parole su coloro a cui si rivolgono.

Essere inclusivi

Non c’è copywriter che non affronti ogni giorno il tema dell’inclusività del linguaggio: una sfida non banale, soprattutto quando si scrive in una lingua come quella italiana in cui la distinzione di genere è molto presente.
Gli strumenti a disposizione di ogni copywriter per adottare un linguaggio inclusivo sono diversi: dallo schwa agli asterischi, dalle perifrasi alla scelta di vocaboli neutri. In contesto pubblicitario, la decisione su come muoversi tra queste possibilità va ben oltre la sensibilità di chi scrive perché deve tenere conto del contesto di pubblicazione, dell’istruzione e delle sensibilità del pubblico, del posizionamento del brand per cui si scrive e di molte altre variabili specifiche.

La sfida è, appunto, non banale. Ma è anche fondamentale. Finirà infatti per contribuire alla definizione della personalità comunicativa del brand e, senza dubbio, impatterà sull’efficacia del messaggio stesso.
Come accennavo, il punto non è potersi appuntare al petto la medaglietta di “politicamente corretti”, e per capirlo basta tornare a concentrarsi sul significato del termine includere.
La definizione del dizionario recita infatti: comprendere in un insieme di cose o persone.
Ora, risulta intuitivo che se chi ti legge - il destinatario del tuo messaggio - non si sente parte del tuo stesso insieme, ma percepisce invece un distacco, sarà particolarmente difficile stringere il rapporto. 
Come può un brand avvicinarsi al suo target se le scelte lessicali dei messaggi che veicola non lo fanno sentire protagonista della comunicazione?
Che presa può avere su di te un testo che sembra rivolgersi a qualcun altro? Ancora peggio: un testo che sembra non aver chiaro chi sei? 

Insomma, lavorare come copywriter implica non poter fare a meno del linguaggio inclusivo.

Siamo solo al livello 0

Come copywriter, sono stata attenta alle parole che ho scelto anche per questo articolo. Il titolo fa riferimento alla violenza delle parole, non al linguaggio inclusivo. Questo perché il linguaggio inclusivo non è il punto: è il punto 0.

Diamo un’ultima occhiata alla sfera semantica dell’inclusione: se il linguaggio include, sta in un certo senso portando allo stesso tavolo mittente e ricevente del messaggio, sta aprendo le porte al dialogo. Ora, però, c’è da fare tutto il resto. 
C’è da riempire di significato quella comunicazione, e il tema del riconoscimento del target è ancora tutto da sviscerare.

Le insidie lessicali, infatti, vanno ben oltre l’inclusività ed è in esse che si esplicita tutto il potere delle parole, quel potere che le rende in grado di esercitare violenza.

I modi di dire, le espressioni e gli aggettivi che costruiscono una narrazione afferiscono a universi di significati e bisogna quindi essere in grado di riconoscere - ed evitare - tutte quelle immagini stereotipiche che esercitano violenza su coloro che descrivono, limitandone la rappresentazione a ciò che da loro ci si aspetta.

A primo impatto, questa sfida può forse risultare meno insidiosa. È facile barricarsi dietro al pensiero “io non sono una persona che discrimina, ovviamente non infarcirò i miei messaggi di stereotipi”. In realtà, uscendo dalle maglie razionali delle regole grammaticali, questa questione può risultare particolarmente spinosa - sì, anche se chi scrive è una brava persona e ha buone intenzioni - per due motivi fondamentali:

  1. Molto spesso, le parole che siamo inclini a utilizzare sono quelle che siamo abituati a sentire. Questo vale non solo a livello di vocabolario complessivo, ma anche e soprattutto in relazione a contesti specifici. A ogni concetto la nostra mente ricollega immediatamente le parole che gli sono associate più di frequente, esponendo chi scrive al rischio di veicolare, anche implicitamente, luoghi comuni pericolosi all’interno di comunicazioni di per sé innocue.

  2. In pubblicità, gli stereotipi (almeno alcuni di loro, quelli apparentemente più inoffensivi) fanno parte in qualche modo degli strumenti del mestiere. Questa affermazione è fraintendibile, me ne rendo conto, perché parte integrante di ogni mestiere creativo è proprio trovare nuove chiavi di lettura, uscire dagli schemi più classici della comunicazione, e sarebbe ingiusto non sottolinearlo. Bisogna però anche tenere a mente la quasi onnipresente necessità di sintesi concettuale che caratterizza il mondo della comunicazione di marca, fattore che può amplificare la tentazione di adottare espressioni stereotipate per rendere il messaggio immediatamente chiaro e comprensibile o quantomeno per creare un punto di partenza “universalmente condiviso” da cui sviluppare il proprio concetto.

Una narrazione violenta

Un punto non scontato è come questi “preconcetti innocui” riescano a intessere una narrazione tossica, diventando strumento di violenza. Non si tratta infatti di servirsi di espressioni direttamente discriminatorie o degradanti - personalmente, credo sia superfluo ogni approfondimento su chi esercita con malizia e consapevolezza questo tipo di violenza lessicale - ma di veicolare immagini stereotipate che si potrebbero definire senza esitazione “non offensive”. 

Il tipo di violenza a cui sto facendo riferimento è quella che si concretizza in una definizione granitica e unilaterale. 

In filosofia c’è una linea di pensiero che associa, appunto, definizione e violenza perché - detta in parole povere - ogni affermazione è negazione di tutte le altre possibilità.
Il punto è proprio questo: nel momento in cui si propone una singola immagine in relazione al modo di essere di una qualsiasi figura, le si nega di poter essere qualsiasi altra cosa. Le si nega, inoltre, la possibilità di autodefinirsi nel modo che desidera.

Può sembrare “esagerato” se non si tiene conto di un altro elemento fondamentale: la ripetizione. Gli stereotipi sono tali solo in forza della loro continua ripetizione e ogni concetto che viene proposto con insistenza influenza, in qualche modo, la percezione del tema a cui fa riferimento.
Ogni essere umano impara a definirsi e forma il proprio pensiero attraverso le parole a cui ha accesso in relazione ai diversi casi specifici, quindi ogni parola che sia diventata caratterizzante attraverso il suo utilizzo continuativo ha in sé un potere violento che si esprime nel momento in cui viene usata su qualcun altro per inquadrarlo.

Portiamo a terra questa riflessione con un esempio: ogni volta che, parlando di donne, si danno per scontati una spiccata sensibilità, l’istinto alla cura o la capacità di essere multitasking non si ha una volontà offensiva, ma si sta perpetrando uno stereotipo che alimenta una datata narrazione tossica. Perché non rientrare in questa descrizione diventa una colpa, un fallimento, un problema.
Lo stesso vale quando a un qualsiasi uomo si associano in automatico caratteristiche come l’ambizione, la sbadataggine domestica o un buon controllo emotivo.

Riscrivere la narrazione

Lavorando con le parole, sento un forte senso di responsabilità: ho scelto bene i termini da utilizzare in questo contesto? Sto avvalorando preconcetti e luoghi comuni con il mio contributo?
La responsabilità condivisa da chi si occupa di comunicazione, però, non può limitarsi a “non essere parte del problema”. Bisogna riscrivere la narrazione, trovare nuove parole, rieducare se stessi prima di proporre agli altri un qualunque messaggio.

È necessario ampliare le maglie delle possibilità lessicali e creare nuovi vocabolari - non c’è bisogno di inventare termini, se si è in grado di riscoprire i significati. 

Solo con una riscrittura sistematica del racconto sociale si può passare dal livello minimo dell’inclusione a quello dell’apertura: l’apertura dei singoli a narrazioni personali ricche di nuove sfumature.

Uno slogan mi risuona spesso in testa: “not all men, but every woman has a story”. 
Il riferimento, naturalmente, è alla sterile argomentazione “non tutti gli uomini esercitano violenza sulle donne”, alla quale si contrappone il fatto statistico che la quasi totalità del genere femminile ha subito, a un certo punto della sua vita, una qualche forma di abuso.

Io, però, non riesco a non pensare anche a tutte queste storie di donne, accomunate da parole e concetti precisi: paura, sofferenza, abuso.

Sono convinta che riscrivere la narrazione intervenendo sul lessico a tutti i livelli contribuisca a costruire una società in cui “every woman has a story” possa assumere un significato diverso, tornare al suo senso originale di esperienza da condividere, senza le implicazioni plasmate dalla realtà attuale.

Sarebbe un ciclo perfetto - da parole nuove a nuove realtà, che a loro volta permettono di scrivere nuove storie.

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Giulia Righetti

Creative Supervisor

Il primo aggettivo che mi viene in mente se penso a me stessa è “entusiasta”. Vengo quotidianamente travolta dalla meraviglia di ogni piccola novità e passo la mia vita su delle imprevedibili montagne russe emotive. Spesso è ...