Recentemente, abbiamo avuto l'opportunità di intervistare Karim De Martino, Vice President Business Development Europe di una delle aziende leader nell’influencer marketing con sedi negli Stati Uniti, Regno Unito e in Italia. Forte di una lunga esperienza nel digital marketing e della creator economy, Karim ci ha offerto una panoramica dettagliata sulla situazione attuale, proiettandoci con un approccio umano e genuino verso il futuro delle collaborazioni tra creatori e brand.
Human Before Digital? Sì, è decisamente calzante. Buona lettura!
Partiamo da quella che può rappresentare una problematica reale, la definizione dei ruoli professionali di chi lavora con i social e offre i propri servizi alle aziende: influencer, testimonial, creators… ci aiuteresti a fare un po’ di chiarezza in merito?
Quando ho iniziato a fine 2009 a lavorare in questa industry, chi faceva questo tipo di mestiere veniva chiamato “blogger”. Oltre a lei c’erano pochissimi, noi avevamo anche clienti come Melissa Satta e Alessia Marcuzzi, per cui avevamo lanciato i rispettivi blog. Solo con l'arrivo di Instagram si è davvero concretizzata l’opportunità di avere delle grandi fanbase ed è così nato il termine “influencer”.
Quindi, ieri blogger, oggi influencer. “Content creator” è però la terza evoluzione. Perché? Perché sostanzialmente a un certo punto la parola influencer ha cominciato a identificare un più ampio spettro di personaggi famosi come musicisti, attori, ma anche chi avesse semplicemente un pubblico social di una certa grandezza. La parola content creator, invece, identifica quella figura che lo fa per professione e ha un seguito perché crea contenuti specifici per i social media.
Inoltre, dopo la pandemia il termine content creator ha assunto un’accezione più positiva rispetto al termine influencer. Ciò si è verificato perché i brand sono sempre più focalizzati sui contenuti di qualità, mettendo questi al centro e non la celebrity con cui stanno collaborando. Non basta più dunque pagare per una grossa fanbase, che magari non è neanche troppo interessata al contenuto.
Dal punto di vista del mercato statunitense, quali sono le principali differenze col mercato italiano (se ce ne sono) e come pensi si evolveranno nei prossimi anni?
Parliamo di una professionalità e di un mercato completamente diversi, tenendo conto di due elementi: volume e maturità. In America hanno semplicemente iniziato prima, per cui oggi l’influencer marketing è già consolidato nei piani di tutte le agenzie, di tutti clienti. In Italia è invece una cosa più misteriosa, che viene inserita nei plan perché fa figo. Non esiste ancora una vera e propria legittimità dell’influencer marketing così come accade negli Stati Uniti, anche perché il mercato degli influencer in Italia vale oggi quattrocento milioni di euro, in America miliardi di dollari, già da anni. Ciò dipende, certamente, anche dalla densità di popolazione.
Inoltre, in Italia molte realtà diverse si sono affacciate all’influencer marketing, mentre negli Stati Uniti ciascuno fa il suo come in compartimenti stagni. Il centro media fa il suo lavoro, così come l'agenzia creativa e lo stesso fa dunque l’agenzia di influencer marketing. Negli Stati Uniti infatti collaboriamo tanto con agenzie e centri media, in Italia, dove il mercato è più piccolo, la tendenza è farsi tutto in casa. La verticalità e le competenze dell’agenzia di influencer marketing è però fondamentale perché c’è tutta una parte di analisi dei dati, di strumenti, di tool. Quando si fa qualcosa in casa si spende meno, è vero, nessuno vieta di farlo. Bisogna tenere a mente, però, che fare un lavoro per cui non si è completamente preparati può essere controproducente.
Qual è la tua opinione sull'attuale stato della trasparenza nell'influencer marketing? Anche alla luce di ciò che è avvenuto con il caso Pandoro-Gate: le direttive AGCOM sono una conseguenza o qualcosa che già bolliva in pentola da tempo?
In verità a tutto questo ci si sta lavorando da anni. Noi siamo stati contattati anni fa, assieme alle altre principali agenzie di Influencer Marketing, dall’istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP) quando ha cominciato a redigere la Digital Chart, chiedendoci di fornire feedback e consigli. Tra le altre cose, la nostra realtà è anche la prima agenzia di influencer marketing a diventare socia dell’Istituto. Bisogna però fare chiarezza: la limitazione di un istituto di autodisciplina è che, appunto, è un’autodisciplina. Quindi l’Istituto dice che ci sono regole da seguire se siete disposti ad autodisciplinarvi, ma non hanno il potere di imporle a tutti. Poi ovvio che se tu come azienda sei già membro IAP, devi seguire le direttive a prescindere.
Siamo poi stati contattati anche da AGCOM già l’estate scorsa, assieme ad altre principali agenzie di influencer marketing e talent management, poiché l’Autorità aveva avviato una consultazione richiedendo note e punti di vista sul tema, accolte devo dire molto bene. Il problema è che prima non esisteva un vero meccanismo di sanzione e molti hanno commesso “leggerezze” poiché non erano mai state ben definite delle regole, dunque chiunque aveva la possibilità di muoversi tra le maglie di questa poca definizione. Finché non è scoppiato un caso clamoroso e tutti hanno detto la loro, anche se questo certamente non è stato né il primo né l’ultimo. C’è infatti anche la questione della difficoltà di monitoraggio e controllo delle attività sui social. Bisogna prestare attenzione a un sacco di cose, agli hashtag #adv, #gifted ecc. Adesso stanno giustamente spaccando il capello in quattro su questi temi proprio perché c'è stato qualcosa che ha fatto puntare i riflettori in quella direzione; ciò si è rivelato il classico vaso di Pandora da cui sono emerse mille cose che potevano essere fatte diversamente, col senno di poi, chiaro.
Dunque, non so che tempistiche avesse AGCOM nel rilasciare le nuove direttive e altre informazioni, ma è caduto tutto a fagiolo. Sempre AGCOM ha annunciato che a marzo ci sarà un tavolo tecnico in cui tutti i partecipanti, tra cui la società per cui lavoro, dovranno portare una sorta di proposta da discutere insieme.
Tutto ciò che sta capitando è dunque giusto. Quando lavoravo con Radio Deejay per il programma televisivo “Volevo salutare” su Italia 1, c'era questa ragazza che faceva la comparsa e aveva 17 anni. In televisione c’era una regola per la tutela dei minori, ovvero che i suddetti potessero stare sul set solo per un certo numero di ore, con delle pause precise. C'era una figura di Mediaset che, col cronometro in mano, tracciava il tempo da quando si accendevano le telecamere. Poi ad un certo punto annunciava che la ragazza fosse stata in video tot ore, il suo limite giornaliero, per cui doveva andare via. Oggi continua ad essere esattamente così in televisione ed è quindi assurdo che invece sui social si possa fare quel che si vuole, utilizzando indiscriminatamente i minori per fare più like.
Un altro esempio concreto? In America c'è la legge Coogan (Coogan Act, che prende il nome dall'attore che ha interpretato prima il monello né Il Monello di Charlie Chaplin e poi lo Zio Fester nella serie tv degli anni sessanta La Famiglia Addams). Jackie Coogan recitava fin da bambino e i genitori gli avevano rubato tutti i soldi che aveva via via guadagnato. Una volta più adulto li ha portati in tribunale, facendogli causa. Da quel momento è stata emanata la legge Coogan che tutela tutti i minori che lavorano nello spettacolo, obbligando i genitori a versare una certa percentuale su un conto blindato, ai quali può accedervi solo il minore al compimento della maggiore età. In Francia hanno fatto una legge simile qualche mese fa per regolamentare la presenza dei minori sui social: se presente in più di una certa percentuale dei post di un genitore o di entrambi, si ha l’obbligo di versare i soldi su un conto. Tralasciamo la riflessione sugli effetti che questa esposizione effettiva avrà poi sulla psiche dei minori. Ne sapremo qualcosa almeno fra 15 anni.
Molte volte ci è capitato di vedere aziende spendere molti soldi in influencer marketing, senza però avere adeguati ritorni. In questo caso quali consigli dare alle aziende, su cosa devono essere molto preparate, o comunque attente, prima di iniziare una simile attività?
Consiglio di affidarsi sempre a professionisti. Quando devi ristrutturare casa la prima cosa che fai è chiamare un architetto. Non bisogna improvvisarsi a fare del fai da te, soprattutto se sei una grande azienda. Quello che purtroppo oggi si tende a fare nell’impostazione di una campagna di influencer marketing è magari chiedere in azienda chi conosca gli influencer e affidargli il compito. Ho però una speranza che questa abitudine non perduri: credo che nei prossimi anni verrà molto più valorizzata l’idea di fare consulenza alle aziende sulla questione influencer, aiutandole a strutturare le loro guidelines, i sistemi di misurazione, i tool da utilizzare. Anche l'azienda che vuole farsi in house l’influencer marketing ha comunque bisogno di un consulente che l'aiuti, affinché non si concentri troppo su una cattiva operatività. È importante analizzare il perché sia strategico fare influencer marketing e come farlo.
Come vedi il futuro dell'influencer marketing, specialmente in un contesto in rapida evoluzione come quello dei social media? Ci sono nuove piattaforme o tecnologie che ritieni saranno particolarmente influenti nel prossimo futuro?
Quello degli strumenti è un tema delicato. Ci sono centinaia di piattaforme per valutare gli influencer. Poi adesso sull’hype di quanto è successo ne stanno promuovendo tantissime, ma ne sono sempre esistite. È importante ricordare che tutte le piattaforme necessitano di competenze. Un esempio che faccio spesso è che non basta avere Photoshop per essere un Art Director. Devi aver studiato, devi conoscere le regole e solo dopo usi lo strumento per il tuo lavoro. Per l’influencer marketing vale lo stesso. Non è che basti prendere una tool online di analisi se poi tanto non lo sai usare, non sai come funzionano i social, non sai quali siano le best practice. Insomma è tutto inutile se non hai background. Poi la faccenda si complica se lavori con l'estero: ormai il 50% delle campagne che facciamo dall'Italia sono su paesi esteri. In Italia dunque ti puoi arrangiare perché sai che x ha fatto L’isola dei Famosi, y è famoso perché canta, z è conosciuto perché il “fidanzato di”, ma sui mercati esteri? Non conosci la cultura dietro a tutti i nomi, ci vuole quindi specializzazione e professionalità. Sicuramente ci saranno nuovi tool in futuro per fare delle valutazioni più oggettive, però secondo me il valore uman,o e di conoscenza culturale, di quello che c'è dietro un determinato profilo resta fondamentale.
Pensi che TikTok possa essere la piattaforma dove notare i content creator e dove essi stessi possano esprimere al meglio la loro creatività?
Anche i reel di Instagram. Comunque la prima campagna su TikTok che abbiamo fatto noi risale al 2016, quando ancora si chiamava Musical.ly, ma solo negli ultimi due/tre anni ha acquisito molta rilevanza, prima in America che in Italia. La piattaforma è stata poi la prima a separare nettamente le garanzie di raggiungere un’audience dal numero di followers. TikTok ha quindi detto ai brand che anche se il creator ha dieci milioni di follower, non ci si aspetti che un suo contenuto faccia dieci milioni di views. Le views sono controllate da un algoritmo, da un team, quindi c’è qualcuno (esattamente come accade in un canale televisivo) che spinge un contenuto perché adesso va questo trend e poi puoi aggiungere persone raggiunte anche acquistando adv dalla piattaforma. Quindi a quel punto non fa davvero la differenza scegliere un creator da dieci milioni di follower; magari è meglio prendere quello da centomila che però ti confeziona il contenuto giusto e bello, su cui poi tu puoi spingere la tua campagna paid media. Meglio mille volte il contenuto figo di “un piccolo” creator, che il contenuto brutto di “uno più grande”.
Su Instagram, abbiamo invece visto tanti contenuti brutti di creator dalle grandi fanbase che purtroppo le aziende continuano a richiedere. Questo perché hanno ancora una certa valenza i Vanity Number. Ma riflettiamoci: all’inizio i creator erano pochi e succedeva che quando un utente si iscrivere alla piattaforma venivano suggeriti dei profili da iniziare a seguire in automatico. Molti utenti creavano profili doppi o erano magari di una certa età, iscritti perché il nipote o il figlio glielo aveva semplicemente suggerito, per poi non usare più il social. Quindi è normale che i creator della vecchia guardia, quelli che oggi sono i più seguiti, abbiano un pubblico dormiente di milioni di persone. Non sono fake, sono profili effettivamente creati ma non attivi, nel boom di iscrizioni che ha avuto la piattaforma. Ma commercialmente questi utenti non valgono nulla, perchè non accedono realmente e non interagiscono con i contenuti.
Raccontaci qualcosa, la campagna più assurda che hai fatto o un aneddoto particolare che non smetti mai di raccontare e ricordare.
Di campagne particolari ne abbiamo fatte davvero tante in cui abbiamo mandato gli influencer in posti insoliti. Per esempio per promuovere l’uscita del film Disney Mulan, abbiamo mandato dei creator sul set del film, non ricordo se in Nuova Zelanda o in Australia, e li abbiamo fatti partecipare agli allenamenti con la spada, la stessa che usavano gli attori del film.
Un altro esempio da citare è l'attività per Pirelli. Da un anno e per tutto il 2024 seguiremo le loro experience, quindi la Formula 1, le regate di Luna Rossa, il campionato di rally. Abbiamo seguito anche lo shooting per il calendario lo scorso giugno a Londra, presentato a dicembre 2023 e in cui abbiamo coinvolto gli influencer. Il semplice shooting si è trasformato in uno show: c'era Max Mariola che cucinava, due o tre dj che si alternavano a mettere su dischi, c’era una presentatrice che faceva interviste ai modelli, al fotografo. Insomma, gli influencer da semplici spettatori passivi e amplificatori dell’evento, ne sono diventati i protagonisti attivi.
Mi viene in mente poi che in America abbiamo lavorato per una campagna di reclutamento per l’esercito americano, per mostrare il training di questa tipologia di professione e abbiamo mandato in una base militare quattro o cinque influencer ad allenarsi intensamente, per una settimana. Hanno svolto attività tipo arrampicata sulla corda, corsa e tanti altri sport impegnativi. È stato divertente perché era diventato un reality show, con questi poveri creator che venivano massacrati e dovevano arrivare alla fine di una settimana davvero sfidante.
Da queste esperienze si evince quanto trasparenza e autenticità siano davvero valori fondamentali nel mondo dell’influencer marketing.
Sì. Tutto quello che oggi viene infatti criticato del mondo degli influencer è l’influencer marketing fatto male. Quindi il personaggio che ha una fanbase enorme generalista, che ti prende in mano un prodotto e te lo fa vedere senza creare alcuna connessione reale con la storia dietro quel prodotto, ma semplicemente lo racconta in maniera approssimativa, senza i tag giusti, è un tipo di influencer marketing che si faceva dieci anni fa e che oggi non ha più nessun senso ed efficacia.
Purtroppo c'è ancora qualche agenzia e qualche cliente che continuano a pensare che quello sia il modo giusto di fare influencer marketing, mettendoci il loro pacco di investimento media per fare delle views che poi non hanno alcun valore o rilevanza.
Bisogna valorizzare invece la creatività, valorizzare lo storytelling, la coerenza di proporre un prodotto che piaccia davvero a chi lo sponsorizza, senza passare di settimana in settimana da un competitor all’altro.
Grazie, Karim!